Tomaso Montanari aderisce al nostro appello e ci regala una sua preziosa riflessione sull’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole italiane, già pubblicata in «MicroMega» 6/2014.
Ridare la vista: scuola e storia dell’arte in Italia.
di Tomaso Montanari
«La storia dell’arte è materia storica e la cosiddetta classe dirigente, che la scuola dovrebbe formare, ha più bisogno di coscienza storica, che di talenti creativi. Che l’attuale ne sia sprovveduta si vede dal modo con cui ha vergognosamente dilapidato il patrimonio artistico di cui ora, affinché seguiti a farne scempi senza scrupoli e rimorsi, si progetta di sopprimere lo studio. Logico: nella sua filosofia la proprietà privata è sacra e inviolabile, ogni limite alla disponibilità dei beni posseduti offende il principio: la legge che tutela i beni culturali ne limita la disponibilità, dunque contraddice ai canoni primi del diritto. La borghesia vuole che i suoi figli seguitino come i padri a inquinare allegramente mari e fiumi, a speculare rapacemente sul suolo delle città e delle campagne, a esportare impunemente capolavori nel baule della fuoriserie. A questo la riduzione della storia dell’arte nella scuola secondaria serve egregiamente»1.
Questa lucidissima analisi, messa su carta da Giulio Carlo Argan nel 1977, è ancora perfettamente valida: esiste un nesso fortissimo tra la devastazione del paesaggio e del patrimonio della nazione italiana e l’analfabetismo storico-artistico di quella stessa nazione. E non si tratta di una trascuraggine innocente: restituire la vista agli italiani vorrebbe dire attuare l’articolo 9 della Costituzione. E si è sempre evitato che accadesse.
1.
Dopo un dibattito ventennale, la storia dell’arte entra nei programmi scolastici italiani nel 1923, con la riforma Gentile. E da allora ad oggi i punti nevralgici rimangono gli stessi: «il limitato orario di lezione, lo sviluppo dei programmi e il reclutamento degli insegnanti»2. Già alla fine degli anni trenta emersero prime proposte di riforma, ispirate da alcuni giovani storici dell’arte (tra i quali lo stesso Argan e Roberto Longhi) in stretto contatto con l’allora ministro Giuseppe Bottai: la più importante era quella di separare l’insegnamento di italiano da quello del latino, per annetterlo proprio a quello della storia dell’arte. Questo avrebbe permesso alla storia dell’arte di avere più ore, più importanza, più forza. E avrebbe reso chiaro che si trattava di insegnare contemporaneamente le due lingue degli italiani: quella delle parole e quella delle immagini, secondo un’idea di ‘bilinguismo culturale’ che affiora alla nostra coscienza storica almeno dall’XI canto del Purgatorio, dove Dante paragona i padri del volgare (Guinizzelli, Cavalcanti e lui stesso) a Giotto e Cimabue, padri della pittura italiana.
Se la guerra impedì qualunque traduzione pratica di questi promettenti orientamenti, fu proprio contando i disastri della guerra, che Longhi rifletté sulle responsabilità e le omissioni degli storici dell’arte italiani, in una famosa lettera al suo allievo Giuliano Briganti: «Il primo bombardamento di Genova dovrebbe risolversi in un interminabile esame di coscienza per noi storici dell’arte. Anche noi, gli anziani soprattutto, siamo responsabili di tante ferite al torso dell’arte italiana, almeno per non aver lavorato più duramente, e per non aver detto e propalato in tempo quanti e quali valori si trattava di proteggere. Anche se il desiderio era di lavorare per molti, di esser popolari (e tu ricorderai che il mio proposito era quello di arrivare un giorno a scrivere per disteso il racconto dell’arte italiana a centomila copie per l’editore Salani) si è lavorato per pochi, e anche voi giovani siete sempre in pochi, direi anzi che andate diradandovi: proprio oggi che ci bisognereste a squadroni. Di qui, del resto, si risale ad altre vecchie carenze della nostra cultura: la storia dell’arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva (se vuole avere coscienza intera della propria nazione): serva, invece, e cenerentola dalle classi medie all’università; dalle stesse persone colte considerata come un bell’ornamento, un sovrappiù, un finaletto, un colophon, un cul-de-lampe di una informazione elegante»3.
Alle vecchie carenze lamentate da Longhi non si sarebbe, poi, posto rimedio: anzi. Quando, nel 1974, Giovanni Spadolini separò il Ministero per i Beni Culturali da quello della Pubblica Istruzione, il divorzio tra tutela e formazione fu definitivo: tanto che il neonato (e già morto) ministero non ebbe mai (e tuttora non ha) non dico una direzione generale, ma una qualunque struttura preposta all’educazione al patrimonio e ad una interlocuzione con le scuole. Il risultato è un lungo rosario di fallimenti, occasioni mancate, erosioni: un rosario che si snocciola fino ad oggi.
Nel 2011 l’efferata riforma Gelmini ha fortemente ridotto l’insegnamento della storia dell’arte negli Istituti tecnici e l’ha del tutto depennata dai Professionali (in indirizzi come Grafica, Moda, Turismo!), ha soppresso le materie di ‘Catalogazione’ e ‘Restauro’ nei Licei artistici, e ha peggiorato la presenza della disciplina rispetto alle moltissime sperimentazioni attive in tutti gli altri Licei. Alla fine del 2013 è stato presentato un emendamento di SEL per il «Ripristino della Storia dell’arte nella Scuola secondaria», che però è stato vergognosamente respinto dal governo Letta, nonostante i vani impegni della ministra Maria Chiara Carrozza, e nonostante il sostegno di 15.000 firme (tra le quali spiccava quella di Massimo Bray, ministro per i Beni culturali dello stesso governo). Si capisce, dunque, perché in pochi siano disposti a credere che il governo Renzi riesca a trovare i 25 milioni annui necessari per riportare (dall’anno scolastico 2015-16) le lancette dell’insegnamento della storia dell’arte ad una posizione pre-Gelmini: anche se proprio questo è l’impegno contenuto in un recente protocollo firmato dai ministri Stefania Giannini e Dario Franceschini.
Ma anche ammesso che, una volta tanto, la politica degli annunci si traduca in realtà, avremmo solo riparato un danno, non fatto un progresso. Già perché il problema non è solo quanta storia dell’arte insegnare: ma soprattutto quale storia dell’arte.
2.
Il dépliant del Tirocinio Formativo Attivo di Storia dell’arte della Sapienza di Roma per l’anno 2012-13 aveva in copertina un fotogramma della celeberrima lezione di storia dell’arte di Amarcord. Per autoironia, c’è da sperare: perché quei quaranta secondi sono il più atroce e fedele ritratto della considerazione di cui la disciplina ha goduto fino a non molto tempo fa. Nella mostruosa ed esilarante galleria di professori reinventata da Fellini, alla storia dell’arte tocca inevitabilmente un’anziana signorina di buona famiglia, che, mentre inzuppa leziosamente un biscottino nel caffé, cantilena, tra lazzi e puzze: «Lo sapete, cari ragazzi, perché Giotto è tanto importante, nella storia dell’arte? Ve lo dico io, il perché: perché Giotto ha inventato la prospettiva. La pro-spe-tti-va…». In questo ritratto grottesco ritroviamo molti elementi di verità: la ridicola concettualizzazione di una storia dell’arte senza immagini, la frivolezza e dunque l’irrilevanza della disciplina, la sua sempre crescente femminilizzazione (che dimostra «l’ottima salute del potere maschile stesso, in quanto effetto della regola per cui laddove un settore si svuota di potere gli uomini iniziano progressivamente a disertarlo»4). E viene in mente che uno dei più antichi documenti relativi alla vicenda scolastica della disciplina è la lettera di un professore di filosofia napoletano, che all’inizio del Novecento scrisse al Ministro dell’Istruzione per chiedergli che, «essendo malato, affetto da nevrastenia, disposto quindi a dire, senza affaticarmi, solo una piacevole e lieve materia», gli venisse appunto affidato l’insegnamento della storia dell’arte5.
Salvo felici eccezioni, tutti ricordiamo corsi di storia dell’arte tenuti da improbabili signorine nevrasteniche, imbastiti su una retorica soggettivissima di imbonitori estetizzanti, assurdamente privi di sopralluoghi all’esterno della scuola e corredati da manuali ermeticamente illeggibili. Una storia dell’arte tanto snervata, degradata e caricaturale da essere perfettamente compatibile con il sacco del paesaggio e del patrimonio artistico.
Oggi, per fortuna, le cose stanno molto diversamente: almeno per quanto riguarda un punto fondamentale, e cioè la qualità degli insegnanti. In una lettera al «Sole 24 ore» del 22 giugno scorso la presidente dell’Associazione Nazionale Insegnanti di Storia dell’Arte Irene Baldriga ha orgogliosamente rivendicato che: «gli insegnanti di Storia dell’Arte dei nostri Licei, dei nostri Istituti Tecnici e Professionali hanno saputo costruire nell’arco degli ultimi decenni un patrimonio unico di buone pratiche, di strategie e di percorsi che valorizzano in pieno la vocazione interdisciplinare della nostra disciplina, collaborando con le grandi e le piccole collezioni museali, diffondendo la conoscenza del patrimonio diffuso e soprattutto impostando l’educazione all’arte come solido terreno ove far germogliare principi di cittadinanza attiva. L’evoluzione epistemologica della storia dell’arte in Italia – così profondamente legata alla storia della cultura, e dunque alla lettura dell’opera come oggetto che si compone al tempo stesso di linguaggio estetico, di evidenze storico-sociali e di intangibili suggestioni spirituali – ha naturalmente prodotto una didattica articolata che è ben lontana dalla mera educazione alla bellezza dei manuali di età gentiliana. L’insegnamento della storia dell’arte possiede, nella scuola italiana, un sostrato metodologico solidamente improntato sulla conoscenza dei documenti e delle coordinate socio-economiche e culturali; esso offre, oltretutto, un modello pedagogico che – come poche altre discipline scolastiche – si orienta in modo esplicito alla formazione del cittadino, rendendolo consapevole della materiale testimonianza delle proprie radici, ma anche responsabile della tutela dei monumenti, della loro comunicazione e di una loro fruizione sostenibile».
Anche se certo sopravvivono ancora troppi reperti del tipo felliniano, questo autoritratto è fedele: la maggioranza degli insegnanti di storia dell’arte di oggi è consapevole della propria missione di educatori alla cittadinanza attraverso la conoscenza storica del patrimonio culturale.
Tutto bene, allora? Certamente no, troppi sono i problemi ancora insoluti.
Alcuni riguardano il rapporto tra la storia dell’arte e altri insegnamenti ad essa contigui: a partire da quello di storia. Recentemente una Lettera aperta dei docenti universitari di discipline storiche nei corsi di Scienze della Formazione primaria all’Università italiana (http://www.stmoderna.it/News/DettagliNews.aspx?id=53) ha fatto giustamente notare la schizofrenia per cui i programmi ministeriali di storia per la scuola primaria prevedono che dai sei ai dieci anni si insegnino solo la preistoria e la stori antica, mentre la stessa scuola primaria deve formare «al senso di responsabilità nei confronti del patrimonio e dei beni comuni» (Indicazioni nazionali 2012). Gli storici non chiedono di abbandonare l’impianto cronologico continuo, ma sostengono – a ragione – che non ha senso ignorare i contesti moderni e contemporanei in cui i piccoli discenti sono immersi: si tratta «di far vivere la storia con competenza e di guidare i bambini alla scoperta delle loro città, del paesaggio, del patrimonio culturale e storico-artistico». Per far questo, aggiungono, «è imprescindibile creare una sinergia con le discipline delle arti. Le indicazioni ministeriali individuano nella tutela dei beni storici e artistici una delle finalità principali dello studio della storia a scuola. Gli insegnanti dovrebbero dunque essere formati per questo compito così importante. Tuttavia, se tutti i corsi di scienze della formazione primaria hanno giustamente un insegnamento di storia della musica, solo una minoranza prevede insegnamenti storico-artistici, gli altri privilegiano quello tecnico del disegno. Possibile che non si possa includere entrambi ovunque? Se, come ricordano le indicazioni ministeriali del 2012, nel nostro Paese “la storia si manifesta alle nuove generazioni nella straordinaria sedimentazione di civiltà e di società leggibile nelle città …nel paesaggio, nelle migliaia di siti archeologici, nelle collezioni d’arte, negli archivi, nelle manifestazioni tradizionali”, la storia e la storia dell’arte sono complementari e si rafforzano mutualmente: attraverso l’osservazione delle tracce materiali del passato i bambini scoprono la storia, e attraverso la storia imparano a capire, amare e tutelare il patrimonio. Vogliamo creare le condizioni perché ciò sia realtà?»
Questo è il punto, e mi pare che valga anche per la scuola secondaria di primo e secondo grado. A questi livelli il problema non è tanto, però, la formazione degli insegnanti, quanto l’atavica insufficienza di ore («C’è bisogno di rivelare che, per il suo orario ridottissimo e un accumulo di altre ragioni essa vi ha fatto e vi fa tuttora la figura di “parente pauvre”, e che la sua autorità effettiva non è, ancora oggi superiore a quella dell’insegnamento di ginnastica?»6) e la qualità dei manuali.
La storia del genere ‘manuale scolastico di storia dell’arte’7 è una storia di fallimenti, più o meno completi. E oggi sono gli stessi insegnanti a denunciare, sempre più spesso, i limiti degli strumenti che sono costretti, comunque, ad usare, tentando di correggerli (per esempio attraverso un ricorso intelligente alle risorse del web8). Sugli ultimi tre numeri (31, 32 e 33) della rivista di storia dell’arte online «Predella» (http://www.predella.it) le lettere di quattro professori di storia dell’arte nei licei hanno denunciato una situazione drammatica. «Sfogliando i manuali, se ne ricava l’idea di una progressiva banalizzazione della materia. I contenuti sono sempre gli stessi, quelli assolutamente canonici, ma affrontati con una lingua piatta e talvolta scialba, con illustrazioni oramai bellissime ma che sembrano galleggiare nel vuoto» (Stefano Renzoni). «Ma è possibile che a nessuno venga in mente di fare programmi che vanno di pari passo o meglio ancora in sinergia, ovvero che l’insegnante di italiano e quello di storia dell’arte si mettano d’accordo e che quando l’uno spiega chi era Francesco d’Assisi e Dante Alighieri, l’altro, negli stessi giorni, tenga una bella lezione sulla basilica di Assisi, Giotto, gli affreschi del Camposanto, facendo i debiti collegamenti?» (Chiara Balbarini). «Sarebbe davvero così assurdo lavorare a lungo e in modo abbastanza approfondito da dare un assaggio metodologico della comprensione della storia dell’arte su pochi, pochissimi argomenti, magari perché no, legati al nostro territorio, in modo da insegnare, già che ci siamo, che l’oggetto d’arte, almeno fino al Novecento, è un unicum e l’unico modo per capirlo davvero è guardarlo nella sua materialità?» (Irene Buonazia). Infine, Alessandro Brogi ha smontato pezzo a pezzo uno dei manuali più usati (il Cricco-Di Teodoro), dimostrando che ad una sontuosa veste grafica corrisponde un testo a dir poco «scandaloso» per errori e lacune abissali.
Ma il problema fondamentale è che i manuali di storia dell’arte sono pensati e scritti per sostituire le opere e i contesti, invece che per guidare i ragazzi davanti a quelle opere e dentro quei contesti. Il che è, almeno in parte, frutto dell’altro cronico problema: l’esiguità dell’orario della disciplina, che rende particolarmente arduo (e spesso impossibile) uscire dalla scuola e praticare l’unico metodo valido per l’insegnamento della storia dell’arte: e cioè la conoscenza diretta, autoptica, materiale delle opere di cui si parla. Il che è vero non solo in riferimento alle singole pitture, sculture o architetture, ma soprattutto in riferimento al vero, insostituibile capolavoro della storia dell’arte italiana: il contesto urbano e paesaggistico, e la loro sedimentazione storica.
L’obiettivo finale dell’insegnamento scolastico della storia dell’arte dovrebbe essere mettere in grado i cittadini italiani di camminare per un quarto d’ora nella loro città rendendosi conto (anche solo grosso modo) di ciò che li circonda. Se alla fine del ciclo scolastico, i ragazzi avessero il desiderio e gli strumenti per farlo, per così dire, in automatico, quotidianamente, sarebbe un successo strepitoso: anche se non sapessero nulla di Leonardo, Caravaggio o Van Gogh. Una simile capacità equivale ad aprire gli occhi: ad accendere la luce nella casa in cui abitiamo da anni al buio perché non abbiamo mai avuto il desiderio di vederla.
Entrare in un palazzo civico, percorrere la navata di una chiesa antica, anche solo passeggiare in una piazza storica o attraversare una campagna antropizzata vuol dire entrare materialmente nel fluire della Storia. Camminiamo, letteralmente, sui corpi dei nostri progenitori sepolti sotto i pavimenti, ne condividiamo speranze e timori guardando le opere d’arte che commissionarono e realizzarono, ne prendiamo il posto come membri attuali di una vita civile che si svolge negli spazi che hanno voluto e creato, per loro stessi e per noi. Nel patrimonio artistico italiano è condensata e concretamente tangibile la biografia spirituale di una nazione: è come se le vite, le aspirazioni e le storie collettive e individuali di chi ci ha preceduto su queste terre fossero almeno in parte racchiuse negli oggetti che conserviamo gelosamente. Non per annullare le differenze, in un attualismo superficiale, ma per interrogarle, contarle, renderle eloquenti e vitali. Il rapporto diretto col palinsesto del contesto artistico italiano può liberare i ragazzi dalla dittatura totalitaria del presente, contrastando l’incessante processo che trasforma il passato in un intrattenimento fantasy antirazionalista: dal Codice da Vinci a trasmissioni come Voyager, passando per un’ampia quota delle Grandi Mostre e attraverso le cosiddette pagine culturali dei massimi quotidiani italiani.
L’esperienza di un brano qualunque del patrimonio storico e artistico va in una direzione diametralmente opposta. Perché non ci offre una tesi, una visione stabilita, una facile formula di intrattenimento (immancabilmente zeppa di errori grossolani), ma ci mette di fronte a un palinsesto discontinuo, pieno di vuoti e di frammenti: il patrimonio è infatti anche un luogo di assenza, e la storia dell’arte ci mette di fronte a un passato irrimediabilmente perduto, diverso, altro da noi.
Il passato artistico raccontato sui manuali e spiegato in aula è rassicurante e finalistico. Ci sazia, e ci fa sentire l’ultimo e migliore anello di una evoluzione progressiva che tende alla felicità. Il passato che possiamo conoscere attraverso l’esperienza diretta del tessuto monumentale italiano ci induce invece a cercare ancora, a non essere soddisfatti di noi stessi, a diventare meno ignoranti. E relativizza la nostra onnipotenza, mettendoci di fronte al fatto che non siamo eterni, e che saremo giudicati dalle generazioni future. La prima strada è sterile perché ci induce a concentrarci su noi stessi, mentre la seconda via al passato, la via umanistica, è quella che permette il cortocircuito col futuro. E solo la conoscenza diretta del palinsesto del patrimonio permette di scoprirne la funzione civile.
La lingua monumentale dell’arte è quella che ha reso unico al mondo, e inconfondibile, il suolo, cioè il territorio, dell’Italia: e che, lungo i secoli, ha reso noi tutti «italiani» per purissimo ius soli culturale. D’altra parte, la Costituzione ha spaccato in due la storia dell’arte italiana, assegnando al patrimonio storico e artistico della nazione una missione nuova al servizio del nuovo sovrano, il popolo. La storia dell’arte è in grande parte la storia dell’autorappresentazione delle classi dominanti, e per un lungo tratto i suoi monumenti sono stati costruiti con denaro sottratto all’interesse comune. Ma la Costituzione ha redento questa storia: le ha dato un senso di lettura radicalmente nuovo. Il patrimonio artistico è divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati. Entrando nei musei, le opere del passato hanno perso la loro funzione originaria (politica, religiosa, dinastica…) acquistandone una puramente culturale (forse più alta, forse più libera: certo diversa). Esse sono uscite anche dal flusso degli scambi economici, e dalla arbitraria disponibilità dei potenti: (almeno per ora) non sono più in vendita, e grazie alla Costituzione appartengono a tutti i cittadini italiani, e, in maniera più lata, a tutta l’umanità. Se impareranno a parlare la lingua di Palazzo Vecchio, della Riserva dello Zingaro o del Duomo di Milano, i bambini e i ragazzi extracomunitari che frequentano le nostre scuole non abbracceranno la storia delle istituzioni occidentali o la religione cattolica, e nemmeno la storia dell’arte e del paesaggio italiani, ma i valori inclusivi, tolleranti e aperti della Costituzione. Non si vincoleranno alle «radici» della identità collettiva italiana, ma accetteranno di fluire nelle acque – felicemente impure, mescolate, contaminate – della tradizione culturale italiana.
La cecità che l’insegnamento della storia dell’arte è chiamato a sanare non è, dunque, solo quella che impedisce agli italiani di oggi di leggere ciò che circonda e plasma la loro vita quotidiana, ma è anche la cecità che ci impedisce di vedere l’urgenza e l’attualità di un progetto costituzionale basato anche sull’uso democratico di quel palinsesto di patrimonio e paesaggio. E oggi come non mai abbiamo bisogno di riacquistare la vista.
Note al testo:
1) G. C. Argan, Allarme per la storia dell’arte, in Quale storia dell’arte, a cura di C. De Seta, Napoli 1977, pp. 3-6 (3-4);
2) E. Franchi, Dalle cattedre ambulanti all’insegnamento ufficiale: l’ingresso della storia dell’arte nei licei, in «Ricerche di storia dell’arte», 79, 2003, pp. 5-20 (5);
3) R. Longhi, Lettera a Giuliano [1944], in Id., Critica d’arte e buongoverno (Opere complete, XIII), Firenze 1985, pp. 129-132 (130);
4) S. Pinto, M. Lafranconi, Gli storici dell’arte e la peste, Milano 2006, p. 20;
5) In Franchi, op. cit., p. 5;
6) R. Longhi, Il livello medio della nostra cultura artistica [1951], in Critica d’arte e buongoverno cit., pp. 21-24 (22);
7) Cfr. S. Nicolini, Il manuale: un modello per imparare la storia dell’arte, dall’epoca della riforma Gentile fino agli Sessanta, in «Ricerche di storia dell’arte», 79, 2003, pp. 21-38, e e M. Ferretti, L’uso delle immagini nei manuali scolastici di storia dell’arte, ivi, pp. 39-60;
8) Cfr. C. Franzoni, Il mondo di internet e la storia dell’arte, in Insegnare la storia dell’arte, a cura di A. Ghirardi, C. Franzoni, S. Simoni, S. Niccolini, Bologna 2009, pp. 69-82.
Tomaso Montanari è professore ordinario di “Storia dell’arte moderna” presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli studi di Napoli “Federico II”, sezione di “Storia del patrimonio culturale”.
Si è sempre occupato della storia dell’arte del XVII secolo, cercando di rispondere alle domande poste dalle opere con tutti gli strumenti della disciplina: dalla filologia attributiva alla ricerca documentaria, dalla critica delle fonti testuali all’analisi dei significati, a una interpretazione storico-sociale. Collabora stabilmente con “la Repubblica”.
Nel novembre 2012 è stato nominato vincitore della seconda edizione del “Premio Giorgio Bassani”, riconoscimento destinato ogni due anni da Italia Nostra a uno scrittore/giornalista che si sia distinto per i propri scritti, o per interventi nel settore della comunicazione, a favore della tutela del patrimonio storico, artistico, naturale, paesaggistico del nostro Paese.
Nel febbraio 2013 ha ricevuto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica «per il suo impegno a difesa del nostro patrimonio». Nell’agosto del 2013 è stato nominato dal ministro Massimo Bray nella Commissione per la riforma del Ministero per i Beni Culturali.
Per Einaudi ha scritto la postfazione ai due volumi de Le vite de’ pittori scultori e architetti moderni di Giovan Pietro Bellocchio (2009), A cosa serve Michelangelo? (2011), Il Barocco (2012), Costituzione incompiuta (2013, con Alice Leone, Paolo Maddalena e Salvatore Settis) e, ultimamente, Privati del patrimonio (2015). Per la Minimum Fax ha scritto Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane (2013) e Istruzioni per l’uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà (2014). Per Skira ha pubblicato La madre dei Caravaggio è sempre incinta (2012) e per Carocci editore L’età barocca. Le fonti per la storia dell’arte (1600-1750) (2013). Per Rai5 ha condotto e curato La libertà di Bernini (una serie di otto puntate dedicate alla vita dello scultore, architetto e pittore italiano).
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